I trovadori
Lessico sm. [sec. XIII; dal provenzale trobador, caso obliquo di trobaire, da trobar, comporre in versi]. Poeta lirico in lingua d’oc dei sec. XI-XIII.
Storia
Sorto nell’ambiente cortese della Francia meridionale, il movimento trobadorico ebbe il suo primo rappresentante in Guglielmo d’Aquitania, in cui sono già presenti un linguaggio preciso e la dottrina dell’amore cortese, inteso come vassallaggio alla dama. I principali trovadori furono Marcabruno, primo rappresentante del trobar clus o arte ermetica; Bernard de Ventadorn, interprete del “parlare dolce e leggiadro”, Jaufré Rudel, Peire d’Alvernha, Guiraut de Bornelh, Arnaut Daniel, Bertran de Born, Raimbaut de Vaqueiras, Peire Vidal, Folquet de Marseille.
Accomunati da un’unica alta concezione dell’arte, i trovadori furono musicisti delle proprie composizioni e si espressero in ritmi e forme diverse, tra cui la canzone, il sirventese, la tenzone, il discordo, il lamento, secondo il prevalere dei temi prettamente lirici, o di quelli morali e politici. Diffusosi in tutta l’Europa, il movimento vide sorgere nel Nord della Francia i trovieri; in Italia il bolognese Rambertino Buvalelli, i genovesi Lanfranco Cigala e Bonifacio Calvo, il mantovano Sordello, il veneziano Bartolomeo Zorzi e altri minori che scrissero in lingua d’oc, e inoltre i poeti in volgare di tutta Europa: dai “Minnesänger” in Germania, alla scuola siciliana e al “dolce stilnovo” in Italia, alla poesia dei “cancioneros” in Spagna.
Letteratura
Più di trecento componimenti sono pervenuti provvisti delle melodie. Di facile decifrazione per quanto attiene agli intervalli melodici, il loro aspetto ritmico è invece tuttora oggetto di contrastanti interpretazioni. Gli stessi dubbi investono la concreta dimensione esecutiva di queste composizioni, che si ritiene fossero cantate con l’accompagnamento di uno strumento melodico (viella, flauto, ecc.). Problemi analoghi investono il repertorio dei trovieri. Le forme della musica trobadorica ricalcano quelle della poesia, alle cui strutture sono strettamente collegate.
.::Gli autori::.
Iacopo da Lentini
Poeta siciliano (notizie dal 1233 al 1240). Esercitò la professione di notaio alla corte di Federico II: Dante lo designa come il “Notaro” per antonomasia (Purgatorio, XXIV, 56) e lo riconosce come il fondatore della scuola poetica siciliana, della quale, nel suo ricco canzoniere (una quarantina di liriche), Iacopo offre un completo campionario. Dotato di consumata perizia retorica, Iacopo trapianta nel siciliano illustre gli schemi più ardui della poesia trovadorica, codificando le strutture metriche della canzone, della canzonetta, del discordo e soprattutto del sonetto, del quale è probabilmente l’inventore. Alla versatile ingegnosità tecnica Iacopo congiunge una spiccata originalità inventiva: la fenomenologia amorosa si configura, nelle sue rime, come vicenda interiore, analizzata con acutezza psicologica e oggettivata in una catena di lucide analogie, che, pur riferendosi al mondo della natura, conservano un senso misterioso di prodigio. Per l’atmosfera di suggestiva trepidazione e d’incantato stupore che circola nelle sue liriche migliori e per il tentativo di conciliare l’amore sacro con l’amore profano, Iacopo anticipa alcuni temi della ricerca stilnovistica.
Guido delle Colonne
Poeta italiano (Messina ca. 1210-ca. 1280). In veste di giudice, a cominciare dal 1243 sottoscrisse numerosi atti; improbabile la sua identificazione con l’omonimo autore dell’ Historia destructionis Troiae, rimaneggiamento in latino del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure. Il suo piccolo canzoniere comprende 5 canzoni, due delle quali furono ammirate da Dante come modello di suprema constructio. In effetti Guido raggiunge i vertici della scuola poetica siciliana per la sua eccezionale perizia retorica, che si traduce in un comporre complesso ed ermetico, ricco di rime difficili e di ardite metafore. In una fitta serie di immagini scientifiche sono espressi i suoi interessi naturalistici.
Stefano Protonotaro
Poeta italiano (Messina sec. XIII). Rimatore della scuola siciliana, è solitamente identificato con il personaggio omonimo ricordato in un documento del 1261 (e, come già morto, in un altro del 1301) e con uno Stefano da Messina, che tradusse dal greco in latino due trattati arabi di astronomia (Liber rivolutionum e Flores astronomiae), dedicandoli al re Manfredi. Delle tre canzoni che ci restano di lui, la più interessante è Pir meu cori alligrari, una tra le poche testimonianze che permettono di risalire, oltre il travestimento toscano, all’originario colorito linguistico della poesia siciliana.
Rinaldo d’Aquino
Poeta della scuola siciliana (sec. XIII). Forse falconiere di Federico II, chiamato “messere” nei canzonieri più antichi, appartenne probabilmente alla famiglia di San Tommaso: secondo un’azzardata proposta di identificazione, si tratterebbe del fratello stesso del filosofo, da lui rapito nel 1244 con l’aiuto di Pier della Vigna. Coltivò i due filoni della scuola siciliana: quello cortese (celebre la canzone Per fin’amore vao sì allegramente, lodata da Dante nel De vulgari eloquentia) e quello popolareggiante: si ricordi il noto lamento per la partenza del crociato: “Già mai non mi conforto, la cui apparente ingenuità lo ha fatto apparire alla critica romantica superiore ai suoi meriti”.
Giacomino Pugliese
Rimatore siciliano (sec. XIII). Il suo piccolo canzoniere (sette canzoni e un discordo) rivela tracce d’una tradizione popolaresca (canzoni di distacco e di lontananza), gusto del parlato, interesse per le situazioni patetiche, che tuttavia non possono avvalorare l’ipotesi di chi ne fa un giullare. Giacomo è rappresentante vivace, ricco di musicalità e colore, della scuola siciliana.
Cielo d’Alcamo
Poeta italiano (sec. XIII). Nulla si sa di lui. Anche il nome è controverso: per lungo tempo fu letto erroneamente Ciullo; oggi si ritiene sia esatto Cielo, diminutivo di Michele. Dal filologo del Cinquecento Angelo Colocci gli è attribuito il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima, uno dei più antichi componimenti poetici in volgare, databile tra il 1231 e il 1250, e contenuto soltanto nel codice Vaticano 3783, scritto in un siciliano alquanto popolaresco, costellato di francesismi approssimativi.