Tutto iniziò nel 1994 quando il poeta, traduttore e scrittore di copioni d’opera Miquel Desclot (Barcellona, 1952) preparando una conferenza sulla musica e le canzoni liriche del XVI secolo, incappò su vari sonetti di Francesco Petrarca (1304-1374) senza una traduzione in catalano, ma necessari come esempio per il suo discorso. Non ebbe altra soluzione se non quella di prendere in mano l’opera e tradurli lui stesso, rimanendo sbigottito: l’autore del primo canzoniere lirico della poesia europea, il poeta più influente e canonico d’Occidente, da Arnaut Daniel a T.S. Elitot, passando ovviamente da Leopardi, senza il quale anche Shakespeare è inconcepibile, non era stato tradotto integralmente in catalano. Nemmeno nei giorni gloriosi della Reinaixença o del Noucentisme, né da Riba o da Foix.
Oltre due decenni più tardi, grazie alle prediche e all’incoraggiamento di Ángel Crespo per tale impresa faraonica, Desclot pubblicò la prima traduzione completa del Petrarca, Cançoner, versione bilingue pubblicato da Proa. Una vera e propria “pietra miliare”, come fa notare il suo editor Josep Lluch, per il quale il traduttore ha solo una spiegazione a metà del perché la Divina Commedia di Dante ha visto nel corso della storia tre versioni integrali nella lingua di Verdaguer, mentre i quasi 8.000 versi del Canzoniere non ne ha vista nessuna.
“L’enorme presenza di Ausiàs March ha reso difficile la diffusione del petrarchismo in Catalogna“, spiega l’esperto in relazione al poeta catalano contemporaneo a Petrarca e di grande influenza rimanendo in auge per circa trent’anni. Cosa che non accadde in queste terre fino a parecchi secoli più tardi, a differenza del resto d’Europa, i cui versi si diffusero a macchia d’olio. “Ma né allora né durante la Noucentisme, nessuno intraprese la folle impresa di tradurlo completamente e non mi so spiegare il perché” ammette. Tuttavia, “l’umana carnalità di Dante come poeta epico” trovò logicamente più sostenitori e seguaci rispetto a “Petrarca che, come un buon poeta lirico, è meditativo e tutto accade all’interno della mente dell’io poetico”.
Un dato da non tralasciare è che questa fu anche la grande ossessione dell’umanista e rinnovatore del latino, ansioso di costruire un grande epopea sulla scia dell’Eneide di Virgilio. Non ha intitolato inutilmente le sue composizioni in lingua toscana, in seguito pubblicate come Canzoniere, con un titolo latino un po’sprezzante: Rerum Vulgarium Fragmenta. Ma questo non significa che “non ci sia una storia di fondo”, dice il traduttore, che esattamente un anno fa terminò la sua versione in catalano de Il libro delle bestie di Lullo: una vasta meraviglia composta da 366 brani, uno per ogni giorno dell’anno più uno, tra sonetti, madrigali, canzoni, sestine e ballate. Questo filo narrativo è una riscrittura del mito di Dafne trasformatasi in alloro, in cui il poeta, innamorato in gioventù di una irraggiungibile donna sposata dell’aristocrazia (non a caso chiamata Laura), viene identificato con Apollo nella sua inutile passione. Cosa che spiega nel sonetto 34, dice l’esperto.
Uguale numero di note e sonetti poetici rappresentano il lavoro portentoso di Desclot, ma solo perché si è contenuto in maniera accorta. “La mia ossessione era poter pubblicare un libro per la buona gente, come disse Espriu, non per specialisti e filologi. Ho cercato di non oltrepassare il confine dell’erudizione apportando il numero di note minimo alla comprensione”.